Resteline, monichelle e soldà-i d’armàda

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La tradizione del canto lirico e narrativo nelle stalle e sulle aie lombarde

 

 

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ASSOCIAZIONE

PENSIONATI e ANZIANI

 

OSIO SOPRA

logocoloriosio.jpgPatrocinio

Osio Sopra

SOTTO IL GELSO

Rievocazione contadina

 

“Il granoturco nella vita

e nella cultura di Osio Sopra”

Mais o Granoturco - Zea mays L.

Sabato 24 Settembre

Alla casa ad archi dalle 20,30 alle 22,30

Stall de l’Astùra

 

In collaborazione con  intestata.gif

Un ringraziamento particolare

all’azienda agricola Dalmaggioni di via Capra per la collaborazione

 

 

Durante la Prima festa contadina, organizzata in collaborazione con l’Associazione Pensionati e Anziani di Osio Sopra, abbiamo eseguito le canzoni di seguito riportate e che sono, a nostro personale avviso, sono alcune fra le canzoni più significative di quelle che venivano cantate nelle stalle di tutta la Lombardia.

 

 

Ói védovìna, ói védovèlla

 

 

Partiamo con una canzone raccolta a Tremezzo (CO)[1], “terra di mezzo” e il suo nome deriva dalla posizione geografica centrale rispetto alla costa occidentale del Lario.

La canzone è meglio conosciuta con il titolo “la maledizione della madre”, è stata registrata il 27 Aprile del 1975 ed è pubblicata su “Como e il suo territorio” della collana “Mondo popolare in Lombardia” curata da Roberto Leydi.

 

 

I-ói védovìna i-ói védovèlla

la vòstra figlia l’è di maritàr

I-ói védovìna i-ói védovèlla

la vòstra figlia l’è di maritàr

 

I-aspétterémo quàttro ó cinqu’ànni

piö grandicèlla la divénterà

I-aspétterémo quàttro ó cinqu’ànni

piö gràndicèlla la divénterà

 

E ma piötòst che dàrti la mia fìglia

ti dò la brìglia del piö bèl cavàl

piötòst che dàrti la mia fìglia

ti dò la brìglia del piö bèl cavàl

 

Ti dò la brìglia ti dò la sèlla

la figlia-i  bèlla me la téngo mé

Ti dò la brìglia ti dò la sèlla

la figlia-i  bèlla me la téngo mé

 

Segnatura:

 LP0145RegLombDCP7/ VPA8299RL / AESS [SUP-IMP00-0000007625]

 

 

Le carrozze son già preparate

 

Questa canzone è stata registrata nella frazione di Colleri del comune di Brallo di Pregola, nella zona alto-collinare agli estremi della provincia di Pavia.

Questa canzone, raccolta dai ricercatori Pierluigi Navoni e Bruno Pianta, è’ più nota con il titolo “La Lena” in quanto l’ultima strofa, in alcune versioni dice:

 

Giovanotti piangete piangete

            chè perduta avete la Lena

            così cara, sì pura e sì bella

            e in un convento rinchiusa

e in un convento rinchiusa lei sta

 

Nella versione di Giovanna Daffini[2], l’ultimo versetto recita:

 

O giovanotti piangete

O giovanotti piangete con me

 

Il testo ricorda molto da vicino la canzone “La domenica andando alla messa” molto più diffusa in tutto il Nord Italia.

Ci siamo attenuti rigorosamente alla versione del “Gruppo di Colleri.

 

Le carrozze son già preparate

i cavalli son pronti a partire

dimmi ói bella se tu vuoi venire

se vuoi venir ai passeggi

se vuoi venire ai passeggi con me

 

Ai passeggi ci sono già stata

compagnata dai miei amatori

se ne accorsero i miei genitori

e monachella mi fecer

e monichella mi fecero ‘ndar

 

Monichella io sono già stata

m’àn rinchiusa fra muri e cancelli

m’àn tagliato i miei biondi capelli

e m’hanno tolto le mie

e m’hanno tolto le mie beltà

 

Il tema della ragazza costretta dai genitori a farsi monaca, è un tema molto ricorrente nella cultura e nella canzone popolare di tutta Europa oltre che della Lombardia, e questa canzone ne è un bellissimo esempio.

 

Segnatura:

NSTLOPV006 / AESS [SUP-IMP00-0000009040]

 

 

 

Armelìna

 

Meglio conosciuta come “Seghé l’èrba murelìna”, questa è una canzone del ricco repertorio delle sorelle Natalina, Luigina e Franca Bettinelli di Ripalta Cremasca in provincia di Cremona.

I comuni di Ripalta Cremasca, Ripalta Arpina e Ripalta Guerina si trovano sul basso corso del fiume Serio, prima che, esattamente in località Bocca di Serio del comune di Montodine, confluisca con il Fiume Adda.

 

Le sorelle Bettinelli hanno tramandato per decenni le canzoni e la cultura della cascina cremasca, celebrate nella pubblicazione “Cremona e il suo territorio” curata da Sandra Mantovani, della già citata collana “Mondo popolare in Lombardia”.

La canzone racconta di una contadina che dai campi dove sta rastrellando l’erba, viene mandata a prendere il desinare.

Sulla strada viene fermata ed importunata da un uomo; Armelina rifiuta il corteggiamento dell’uomo e, con un gesto inaspettato, lo uccide.

L’idea della ragazza, apparentemente indifesa, che si fa giustizia da sola è un tema caro alla canzone popolare.

Per certi aspetti la melodia ricorda canzoni quali La bionda di Voghera o La belå de Oplagå[3] tranne appunto che per il finale a sorpresa.

Per la verità questa stessa canzone, con il titolo di “La vivandiera assassinata” ha un finale opposto secondo il quale è il bellimbusto che uccide la ragazza.

Nella versione delle Bettinelli l’ultima strofa non lascia adito a dubbi e l’orgoglio femminile si fa valere.

 

Seghé l’èrba murelìna

Seghé l’èrba ch’l’à trà ‘l bèl fiór[4]

Prenderémo tre réstélìne, le manderémo a réstelàr (2)

 

Scéglierémo la più-i bèlla, ma la più-i bèella

La manderémo a purtà ‘l disnà

Scéglierémo la più bèlla

la manderémo a purtà ‘l disnà

 

Quan fui stato metà ‘lla strada, metà ‘lla strada

La gh’à incontrato ‘l suo primo amór[5]

Quan fui stato metà ‘lla strada

la gh’à incontrato ‘l suo primo amór

 

Dove vai o Armélìna, o Armélina

Vò a fòra purtà ‘l disnà

O mètti giù quèl péntolìno e sótto l’ómbra farè ll’amór

 

Fàr l’amóre io non c’ò témpo, Io non ci’ ò témpo

Dévo andàre purtà ‘l disnà

A fàr l’amóre io non c’ò témpo

dévo andàre purtà ‘l disnà

 

La tìra fòra ‘l curtèl de tàsca, curtèl de tàsca

E nel cuòre gliéla gettò

La tira fòra ‘l curtèl de tàsca

e nel cuòre gliéla gettò

 

Còsa fai o Armélìna, o Armélìina

Che ài ucìso ‘l tuo primo amór

Còsa fai o Armélì_ina che ài ucìso il tuo primo amór

 

Nella nostra zona si canta una canzone molto simile a questa:

 

Sighesì che ‘l taja l’erba

taja l’èrba ‘n mès al prà

 

Restelì che i-a restèla

i-a restèla ancor più bén

 

Metti giù quel cestolino

sotto l’ombra farem l’amòr

 

Far l’amore si va in campagna

Sotto l’ombra ma di un bel fiòr

 

Ma il testo è quanto mai incerto e abbiamo preferito ripegare sulla versione, sicuramente originale, delle sorelle Bettinelli.

 

Segnatura:

Misc.MPL.7 / AESS [SUP-IMP00-0000007738]

 

 

La rondine importuna

 

Come tutte le canzoni popolari, anche questa è più nota con il suo incipit “Peppino entra in camera”.

Una bellissima esecuzione è stata effettuata il 14/09/1977 da Brignoli Vittorio e registrata dai ricercatori bergamaschi Sandra e Mimmo Boninelli durante una ricerca da loro effettuata a Torre de Roveri.

I nastri originali sono conservati presso la Biblioteca Antonio Tiraboschi - Archivio della Cultura di Base.

 

Peppino entra in camera

in camera della signora

e l’à trovada in letto

ché la dormiva sola

 

Era discoperta

dal capo fino al fondo

non ho mai visto al mondo

na donna così bella

 

Peppino le dà un bacio

e lei non lo sentiva

Peppino gliene dà un altro

aimè che son tradita

 

Tu non sarai tradita

sarai la sposa mia

Padrona del castèlo

e della vita mia

 

Rondinella ói bella

tu sei la traditora

tu ài cantà stanotte

prima della tua ora

 

Segnatura:

CD0052FondoTiraboschi/Boninelli06 / AESS [SUP-IMP00-0000010068]

 

 

Son qui sotto le tue finestre

 

Con il titolo originale “Il mio cuore ai forestieri”, la prima registrazione di questa canzone è stata effettuata dal Gruppo di Bienno, in “ricerca a Bienno” effettuata da Bruno Pianta nella pubblicazione “Brescia e il suo territorio”.

Il comune di Bienno è situato al centro della “valle dei magli”, in Valcamonica ed è rinomato in tutta l’alta Italia per la “Ferrarezza”, l’estrazione e la forgiatura del ferro.

Il nome Bienno pare significhi “torrente delle miniere” e il torrente in questione è il Grigna, affluente, poco più a valle, dell’Oglio

Durante la Sagra-Mercato organizzata tutti gli anni dalla pro-lco e dai volontari del paese, è possibile vedere in funzione i vecchi magli, azionati dagli anziani del paese e i vecchi mulini, rispolverati e messi a nuovo per l’occasione.

Mulini e magli sono mossi, come dicevamo, dal torrente Grigna che lambisce il territorio del comune.

 

Son qui sotto le tue finestre

attaccato alle inferriate

Io non voglio tornare a casa

finchè ho fatto l’amor con te

 

Ma l’è inutile che tu passeggi

e tu rompi le scarpe invano

Hai la faccia ma di un villano

il mio cuore non è per tè

 

Il mio cuore non è più mio

l’ho donato ai forestieri

Giovanotti del mio paese

io vi lascio la libertà

 

Segnatura:

NSTLOBS010 / AESS [SUP-IMP00-0000009028]

 

 

La figlia del paisàn

 

Il comune di Plesio, in provincia di Como, è uno dei comuni in cui meglio si è conservata la tradizione dei canti e delle ballate delle colline che circondano il lago di Como.

Risalendo la sponda occidentale del lago, all’altezza di Menaggio, si incontra la deviazione che porta al comune di Plesio, poco più di 800 anime.

Da lì, bricòla in spalla, partivano i contrabbandieri diretti verso la Svizzera. Niente da stupirsi se, in un luogo così impervio e difficilmente raggiungibile, si siano mantenute fino ai nostri giorni, tradizioni antichissime[6].

A Plesio, nel ‘75, per la pubblicazione “Como e il suo territorio”, è stata registrata una bella versione de “La filglia del paisàn”.

I contrabbandieri non viaggiavano mai in gruppo: si distanziavano almeno di un centinaio di metri e, per non perdere il contatto, cantavano sottovoce canzoni narrative lunghissime.

Se un contrabbandiere smetteva di cantare, era un brutto segnale per tutti i suoi compagni che si mettevano immediatamente in allerta.

La canzone si è trasferita dal repertorio della frontiera direttamente al repertorio della stalla di cui ancora oggi è ricco il paese di Plesio.

Il testo integrale della canzone si compone infatti di una dozzina di strofe; nella nostra esecuzione, vengono cantate le prime tre.

 

E l’è la figlia d’un paisàn

l’è la figlia d’un paisàn

e tücc i disen che l’e bèla

 

E se l’è bèla coma i dìss

e se l’è bèla coma i dìss

noi la faremo remirare

 

E la faremo remiràr

noi la faremo remiràr

ma de trì solda-i d’armada

 

La canzone prosegue raccontando che il soldato più bello rapisce la raggazza e la tiene rinchiusa per sette anni in un castello della Francia finchè la ragazza cede alle lusinghe del soldato.

 

Chelo piö belo de sti tre

chelo piö belo de sti tre

a l’è stacc quel che l’à robada

 

E ‘ll’à portàda de luntan

e ‘ll’à portàda de luntan

in un castèlo de la Franza

 

E ‘ll’à lasàda là sètt agn

e ‘ll’à lasàda là sètt agn

sensa vedér né sol né lüna

 

E ala fì de sti sètt agn

E ala fì de sti sétt agn

El s’è dervì ‘na finestrèla

 

Nella tradizione popolare si trovano parecchie versioni di questa canzone[7] e la caratteristica che le accomuna è la lunghezza del testo e la durata dell’esecuzione.

I lavori di manutenzione, così come le attività di scartocciature e sgranatura delle pannocchie, piuttosto che operazione di separare il grano dalla pula[8], erano attività non faticose ma lunghe e ripetitive.

 

Segnatura:

LP0145RegLombDCP7/ VPA8299RL / AESS [SUP-IMP00-0000007625]

 

 

Fiore messicano

 

Nella pubblicazione “Piamontesi mandìm a casa – Il canto tradizionale a Dossena” Valter Biella e Francesco Zani hanno raccolto e documentato questa canzone, più nota con il verso iniziale di “Passa e ripassa”.

La canzone narra di un ricco cavaliere che, venuto a sapere che la sua innamorata è morta, in preda alla disperazione, si uccide con un pugnale sulla tomba di lei..

Dossena è un piccolo paese della Val Brembana sopra San Pellegrino Terme. Per secoli, la gente di Dossena ha lavorato nelle miniere in condizioni assolutamente precarie, con una mortalità altissima per silicosi.

Chiuse le miniere gli abitanti hanno conosciuto periodi molto difficilie seguiti dall’amarezza dell’emigrazione, in Svizzera, Francia, Germania e Belgio.

Hanno però mantenuto uno stretto legame con i loro luoghi e con le loro tradizioni, grazie soprattutto ad una famiglia, la famiglia Zani, che ha tenuto alto l’orgoglio e vive le tradizioni  della gente di Dossena.

 

Passa e ripassa, sotto finestre chiuse

Finestre sempre chiuse della mia innemorata

 

E finalmente, s’affaccia la sua mamma

Quella che voi cercate l’è morta e sotterata

 

Gira i cavalli, vado dal sagrestano

Vorrei che mi insegnasse la tomba del mio amore

 

Guarda là in fondo, dove la terra è mossa

Là troverai la fossa della tua innemorata

 

Quando era viva, la mi sembrava un fiore

Un fiore messicano per me sei troppo lontano

 

Prendi il pugnale, gettalo nel cuor mio

Voglio morir anch’io al fianco del mio amore

 

Valter Biella è una delle figure dominanti della ricerca nel campo della musica popolare bergamasca e non solo.

E’ un grande sostenitore e propositore della tradizione campanare delle valli oltre che essere un documentatissimo costruttore e suonatore di baghèt una sorta di cornamusa la cui diffusione in terra bergamasca è largamente documentata dagli afffreschi presenti nelle chiese della Valle Seriana.

 

 

Guarda là quella chiusa finestra

 

In alta Valsassina, dopo Taceno, Margno e Somandino, la strada scollina in Val Varrone, una valle strettissima che parte da Premana e, passando da Pagnona e Premenico, scende fino al lago di Como, sulla sponda lecchese, all’altezza della cittadina di Dervio.

Premana era nota già dal tempo degli antichi romani che vi si recavano per rifornirsi di lance, spade e corazze costruite sfruttando le numerose miniere della zona.

Ancora oggi Premana è una delle capitali europee delle forbici che vengono perlopiù fabbricate da piccole officine a conduzione familiare, ricavate nei garage e negli scantinati.

Pur essendo a pochissimi chilometri in linea d’aria da Morbegno, non è mai stato realizzato il passo che da Premana portasse in Valtellina per cui Premana e i paese limitrofi si trovano in una zona difficilmente accessibile.

Grazie a questa difficoltà si sono mantenute integre molte tradizioni e un particolare gusto per il canto corale cui gli abitanti sono particolarmente sensibili.

I cori tradizionali di Premana vengono detti “Canti a tìir” ed è probabilmente dovuto al fatto che uno dei cantori, molto più spesso una cantora, lancia in la melodia che trascina e coinvolge il resto dei coristi.

Una grande prova di questa tecnica è fornita tutti gli anni, la sera del 5 di Gennaio, vigilia dell’Epifania: tutta la gente si riversa per le stradine e le piazze del paese per la processione che chiamano “La cavalcata dei Re”, celebrazione dell’arrivo dei Magi a Betlemme, e intonano fortissimo la “canzone dei tre re” fra le alte case e le anguste piazzette del centro storico.

 

Guarda là quella chiusa finestra

Dove riposa l’amato mio béne

Dove riposa l’amato mio béne

Dove riposa l’amato mi bén

 

Dormi dormi, o angiol beato

E fa di un sonno che sia giocondo

E fa di un sonno che sia giocondo

Come l’amore che nutro per te

 

La canzone è stata raccolta a Premana dai ricercatori Glauco Sanga e Pietro Sassu.

Informatori: Cantori di Premana.

 

Efrem Gianola presidente della Proloco di Premana e gestore del museo etnografico di Premana, a queste due strofe ne aggiunge una terza la cui autenticità però è abbastanza dubbia.

 

Guarda là su quei prati fioriti

dove ci sono le piante seccate

come faranno di nuovo a fiorìr

 

 

Dammi un riccio dei tuoi capelli

 

"Dammi un riccio" compare, come strofa interna, nella "Canzoncina di un innamorato" pubblicata su un foglio volante stampato a Torino nel 1892 dalla tipografia operaia di Via Massena, 5.

Dopo questa prima pubblicazione, la canzone è entrata a pieno titolo a far parte integrante del repertorio dei cori alpini.

La versione cui noi facciamo riferimento è quella raccolta a Ranica (Bg) Valle Seriana, dal repertorio di Aquilina Conti "Ricerca a scanzorosciate, Nese e Ranica.

L’andamento melodico si è modificato pian piano, prova dopo prova, sulla base del ricordo di come veniva cantata questa canzone nella nostra zona.

 

Dammi un riccio dei tuoi capelli

Che io li tengo per tua memoria

Quando sarò sul campo della vittoria

i tuoi capelli sì sì li bacerò

 

I tuoi capelli son ricci e belli

sono legati a fili d’oro

Angelo del cuor mio per te io muoio

Angelo del cuor mio per te io morirò

 

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Tutti i brani appartengono alla tradizione popolare e gli arrangiamenti originali sono di GianPietro Bacis.

 

 

 

IL GRANOTURCO

 

 

 

 

 

Origine e diffusione.

 

Il mais (o granturco, granone, frumentone, melgotto ecc.) fu conosciuto dagli europei un mese dopo la scoperta dell'America.

Zea Mais, propriamente detto, è una pianta annuale delle graminacee, originaria dell' America Centromeridionale ed era coltivata da Aztechi, Maya e Incas, grandi coltivazioni erano inoltre presenti a Cuba.

La prima, rapida diffusione del mais in Europa si ebbe nel 1600 nelle regioni Balcaniche, allora facenti parte dell'impero Ottomano, grazie alle con­dizioni climatiche favorevoli che assicuravano produzioni di granella più che doppie rispetto ai cereali tradizionali.

Qualche tempo dopo il mais iniziò a diffondersi in Italia, probabil­mente con varietà provenienti dai vicini Balcani. Da questo, probabilmente deriva il nome popolare di «granturco», a meno che non lo si voglia attribuirlo al fatto che tutte le cose strane venivano dette turche: “cose turche”.

Da noi viene chiamato ”mèlgòtt” in quanto ricorda un’altra pianta già largamente diffusa, la melga o saggina, che veniva coltivata per la fabbricazione delle scope (scùe de mèlga).

In genere, nei campi di granoturco si riservavano due o tre filari per la semina della saggina.

Le regioni padane, e in particolare quelle nord-orien­tali, grazie al clima favorevole furono quelle che introdussero il mais in misura insuperata.

Le regioni italiane più intensamente maidicole (coltivate a mais) sono Veneto, Lom­bardia, Piemonte e Friuli V .G.: da sole queste quattro regioni producono circa il 66% di tutto il mais prodotto in Italia.

 

 

La coltivazione.

 

Mais o Granoturco - Zea mays L.La semina del granoturco avveniva in primavera, verso la fine di marzo o lungo il mese di aprile, quando la temperatura media del terreno raggiunge i 12°. In alcune zone veniva anticamente seminato a spaglio e appena nate le piantine, si procedeva alla diradatura che garantiva la giusta quantità di piantine per metro quadrato.

Nella nostra zona la semina è sempre avvenuta in filari.

Nella semina manuale, con un punteruolo di legno detto cavicchio (caécc) si effettua un buco nel terreno e si mette a dimora il chicco, detto tecnicamente cariosside, ad una profondità tra i 4 e i 6 cm.

I filari distano fra di loro dai 60 agli 80 cm e la distanza ottimale dei semi lungo i filari, è di circa 20 cm ma, tenendo conto della fallanza (numero di piantine che non germoglieranno), normalmente i semi vengono posti ad una distanza di 15 cm.

A circa una settimana dalla semina, dal chicco fuoriesce la radichetta che è destinata a raggiungere la profondità di più di un metro e assicurerà alla piantina il rifornimento di acqua.

Le altre radici, più superficiali, garantiranno alla piantina il nutrimento. Alla radichetta, segue a distanza di qualche giorno, la prima fogliolina (coleoptile) che sbucherà dal terreno dopo circa 2 settimane dalla semina.

Quando le piantine raggiungono l’altezza di 30-40 cm, si procede alle  operazioni di sarchiatura e di rincalzo.

La sarchiature, effettuata con la zappa, rompe le zolle di terreno fra i filari a garantire, in questo modo, un maggiore assorbimento dell’acqua.

http://t1.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRm-7l6YhmZGbzFbvNYh0uWc1mseHz-y8CikskgAjePAK2cPmlaDopo la sarchiatura si procede all’operazione di rincalzo, che consiste nell’addossare la terra alle radici delle piantine di granoturco, che tendono a radicare anche fuori dal terreno, e prepara i solchi per facilitare lo scorrimento dell’acqua durante le irrigazioni del periodo estivo. Durante la sarchiature e il rincalzo, vengono inoltre estirpate le erbe infestanti che minacciano la crescita delle piantine di granoturco.

La piantina si sviluppa con una serie di foglie (circa 14) disposte alternativamente da una parte e dall’altra del fusto.

Può raggiungere l’altezza di oltre 3 metri e, sulla cima, si sviluppa il pennacchio che rappresenta l’infiorescenza maschile della pianta.

A metà gambo, circa 6-7 foglie dalla cima, e altrettante dalla radice, si sviluppa quella che noi chiamiamo pannocchia ma che scientificamente si chiama spiga, e rappresenta la parte femminile del fiore.

Le specie attualmente coltivate nella nostra zona fanno una sola pannocchia giallo-dorata per ogni piantina. Esistono però specie diverse che fanno più di una pannocchia per gambo.

Il colore delle pannocchie varia da tipo a tipo di granoturco; si parte dalle pannocchie di colore bianco, per arrivare fino a chicchi violacei passando da tutte le tonalità di giallo, arancio e rosso.

L’impollinazione viene effettuata dal vento che fa cadere i semi del pennacchio sul fiore femminile che, una volta impollinato, darà origine alla pannocchia.

Durante il periodo di maggiore siccità si procedeva alla irrigazione dei campi di granoturco e veniva effettuata negli orari rigidamente assegnati ad ogni singolo appezzamento di terreno, con il sistema delle chiuse (ös-cére) distribuite lungo i fossi.

Per dirigere l’acqua verso i punti più alti del terreno, si scavavano piccoli fossati e, per far uscire l’acqua nei punti strategici, si sistemavano nei fossati, pezzi di tela cerata (tìla seràda).

Oltre all’irrigazione, il granoturco non richiede altri interventi fino al momento della raccolta.

http://www.vitatrentina.it/var/vitatrentina/storage/images/media/imported-images/i_custodi_del_sorc/vanoi_granoturco_messo_ad_essicare/591647-1-ita-IT/vanoi_granoturco_messo_ad_essicare_large.jpgLa raccolta delle pannocchie e del granoturco avveniva di solito in due riprese. A metà settembre il contadino passava nel campo e coglieva le pannocchie già mature, cioè quelle che si erano colorate di giallo paglierino; le altre, che conservavano ancora un colore verdastro, venivano lasciate sullo stelo ed erano raccolte in un secondo tempo; anzi durante la prima "passata" il contadino tagliava la parte superiore del gambo, al di sopra delle pannocchie, affinché queste maturassero meglio. Le pannocchie erano portate a casa con gerle e ceste, a volte col carro ed erano poste ad essiccare sui pavimenti in legno delle logge (lòse) delle case coloniche.

Nei cortili provvisti di aia, le pannocchie venivano stese al sole a completare la maturazione.

Ovviamente, in caso di pioggia, le pannocchie dovevano essere immediatamente ritirate e poste al riparo, sotto i porticati.

La sfogliatura o scartocciatura (scaossà) era fatta per lo più dopo cena nelle lunghe serate autunnali. Al fioco lume di lanterne o di piccole lampade, giovani e anziani, uomini e donne si raccoglievano sotto i portici (pórtèch) e procedevano a staccare le brattee della pannocchia per mettere allo scoperto i chicchi dorati.

Questo lavoro era accompagnato da lieti conversari, da canti popolari e, a volte, era interrotto da brevi soste per uno spuntino, accompagnato da vino novello.

In seguito le pannocchie venivano riunite a mazzi e appese alle balconate di legno; con i loro colori rallegravano le tristi giornate autunnali.

Le pannocchie più belle venivano conservate per la semina della primavera successiva.

Non si buttava niente, le foglie delle pannocchie servivano per il pagliericcio del letto, il materasso di una volta, e la massaia le raccoglieva con cura, le passava per ripulirle dalle scorie e le metteva nei sacconi sui quali intere generazioni di contadini hanno passato le loro notti. Le pannocchie dorate, rosate, rossicce e ben secche dovevano poi essere "sgranate"; dovevano cioè essere staccati i chicchi dai tutuli. Questo lavoro si svolgeva saltuariamente nei ritagli di tempo nelle giornate grigie e fredde invernali, quando il maltempo non permetteva assolutamente il lavoro in campagna. La sgranatura si faceva in cucina accanto al fuoco o nella stalla. Il contadino teneva a fianco una gerla di pannocchie e sulle ginocchia una cesta dove cadevano i chicchi che si staccavano sotto la pressione delle mani con le quali sfregava fortemente due pannocchie.

I tutuli (bianchi o rossi in base al tipo di granoturco) liberati dai chicchi finivano nel fuoco. Il grano giallo e dorato, ben secco veniva conservato in un luogo ben asciutto.

All'occasione la massaia ne preparava un sacco per il mulino.

Ne riceveva un sacchetto di farina gialla e un sacchetto di crusca cioè le bucce dei chicchi passati alla macinazione.

La farina veniva messe nelle scancerie di legno (scansée) pronta per la polenta delle settimane successive.

 

 

 

Termini dialettali legati al granoturco.

 

Come già detto a Osio il granoturco era chiamato melgòtt in quanto molto simile alla melga, saggina, che veniva usata per la costruzione delle scope.

Alcuni altri termini dialettali.

Melgàss, melgasècc: i fusti del granoturco senza le pannocchie. I fusti, una volta trinciati, sono destinati all’alimentazione del bestiame o, se troppo secchi, venivano usati come lettiera per il bestiame nella stalla..

Canù del melgòtt: pannocchie di granoturco.

Risulì: Tutuli sui quali sono incastonati i chicchi

Scartòss: fogliame che ricopre la pannocchia.

Barba de canù: filamenti che escono dalla sommità della pannocchia. In molte zone (non nella nostra) veniva usata per tisane diuretiche.

Scaössà: l’operazione di scartoccia mento della pannocchia

Sgranà: togliere i chicchi dau tutuli

Trincià: tagliare a pezzetti i fusti.

 

La coltivazione nella nostra zona.

 

Come per le altre coltivazioni, a Osio Sopra i contadini lavoravano i terreni dei grandi proprietari terrieri in regime di mezzadria.

La mezzadria prevedeva che tutto il raccolto e il ricavato della vendita del bestiame dovesse essere diviso “a mezzo” con il proprietario del terreno che solitamente era anche il proprietario della casa in cui il contadino mezzadro (massér) abitava insieme alla sua famiglia..

Ai mezzadri era concesso di tenere, in autonomia, gli animali domestici di piccola taglia, galline, conigli, oche ecc. ed avevano il diritto di farli razzolare sui terreni dopo i raccolti e dopo che le contadine avevano “spigolato” cioè raccolto le spighe del frumento o i chicchi caduti durante la raccolta.

A Osio c’erano tre latifondisti, proprietari praticamente di tutti i terreni coltivabili e non coltivabili: Bombardieri, Stampa e Astori.

I Bombardieri erano proprietari dei terreni a Nord del paese, l’attuale zona cave, gli Stampa erano proprietari dei terreni ad Ovest.del paese, gli Astori possedevano tutti i terreni a Sud-Est, praticamente oltre l’attuale autostrada e lo statale, ed alcune aree boschive lungo il corso del Brembo.

A parte Bombardieri, che gestiva personalmente i mezzadri che lavoravano i suoi terreni, gli altri proprietari raramente venivano ad Osio né tantomeno si occupavano di gestire le loro proprietà e il raccolto dei loro terreni.

La gestione era affidata, per quanto riguarda gli Stampa ad un fattore (fatùr de Stampa), mentre, per quanto riguarda gli Astori, ad un Capo d’uomo (Cap d’om contratto in Cald’om).

Il compito del Fattore e del Capo d’uomo era quello di verificare che il contratto di mezzadria fosse rispettato, parlandone direttamente con i  capifamiglia e, in caso di non rispetto delle regole, segnalare la cosa ai proprietari.

Nei rari casi di grave disaccordo, il capofamiglia e l’intera famiglia erano allontanati: perdevano il diritto di abitare nelle stanze occupate e di coltivare i terreni a loro assegnati.

Succedeva invece, questo molto più spesso, che al contadino e alla sua famiglia venisse imposto di traslocare per fare spazio a nuove famiglie che si insediavano sul nostro territorio, in arrivo da campagne evidentemente meno produttive delle nostre.

Il trasloco veniva effettuato, come da tradizione, il giorno 11 di Novembre, San Martino, tant’è che, in caso di trasloco, ancora oggi si dice “fare San Martino”.

 

Due parole sul granoturco di seconda coltura (quarantì).

 

Dopo la raccolta del frumento, che avveniva solitamente nel mese di Giugno, sugli stessi campi veniva seminato una specie particolare di granoturco che cresceva con grande velocità.

Il nome bergamasco di quarantì, indica appunto il fatto che nel tempo record di quaranta giorni, più o meno verso la meà di Agosto, spuntavano le prime pannocchie.

 

 

 

Purtroppo le temperature autunnali impediscono la completa maturazione delle pannocchie. Verso la fine del mese di Ottobre, prima dell’inizio delle prime gelate, piantine e pannocchie vengono trinciate e insilate per l’alimentazione del bestiame durante l’inverno.

 

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Una bella foto scattata da Ernesto Fazioli, grande fotografo cremonese e grande testimone della vita dei contadini lombardi.

 

 

 

 

 

Il campanile visto da Via del Pozzo

Il campanile visto da Via Mazzini

 

Invernici Giuseppe

uno dei pionieri di Osio Sopra

 

 

Regole di base per la lettura e la scrittura dei termini dialettali bergamaschi

 

Nei  paragrafi che seguono, abbiamo cercato di riassumere le regole fondamentali della lettura e della scrittura del dialetto bergamasco.

Ben lontano dall’essere un manuale completo ed esaustivo sull’argomento, vuole essere molto semplicemente un prontuario per la corretta pronuncia dei termini dialettali, tenendo presente, però, che molto spesso la pronuncia varia da zona a zona e, in qualche caso, da paese a paese.

 

1 – L’accento grave (è ò) e l’accento acuto (é ó)

 

Le due vocali e o, possono assumere due suoni differenti in funzione dell’accento che le caratterizza.

In presenza dell’accento grave (è ò) la vocale viene pronunciata in modo aperto mentre, con l’accento acuto (é ó), la vocale si pronuncia chiusa.

 

 

Accento grave (è ò)

pronuncia aperta

Accento acuto (é ó)

pronuncia chiusa

Esempi in italiano

Erba, elica, foglia, colla

Verde, bere, gola, ombra

Esempi in bergamasco

èrta (aperta)

mèda (non sposata)

mèll (guinzaglio)

mòla (molle)

òsta (vostra)

tòr (toro)

érda (verde)

polér (pollaio)

mél (miele)

fónda (profonda)

nóno (nonno)

tór (torre)

 

2 – Laccento tedesco ö ü (umlaut)

 

Per indicare alcuni suoni che non esistono nella lingua italiana, dobbiamo fare ricorso ai doppi puntini posti sopra le vocali o e u, cioè ö e ü.

Un ottimo esempio della vocale “ü” è nel nome del nostro paese: Üss Sùra e un esempio di “ö” è nel nome del paese confinante Öss Sótt .

In francese i suoni corrispondono rispettivamente agli articoli uno pronunciato “ön”e l’articolo una, pronunciato “ün”.

Per maggiore chiarezza, ci si può aiutare con gli esempi sotto riportati.

 

                Esempi di ö (o umlaut)

Esempi di ü (u umlaut)

öna (una), öf (uovo), scöla (scuola), fasöl (fagiolo), ansaröl (avanzo), bödell (budello), cör (cuore)

ü (uno), büs (buco), müs (muso), premüra (fretta), altüra (altura),

cünì (coniglio)

 

 3 – “s”   sonara, “s” sibilante e suono “z”

 

La "s" quando è posta fra due vocali, può essere sonora o sibilante. La “s” sonora si scrive come “s” singola mentra le “s” sibilante si scrive con la doppia “s”, e viene pronunciata come una “s” singola ma con suono più duro.

 

Esempi di “s” sonora

Esempi di “s” sibilante

mèsa (mezza)

ciésa (chiesa)

carèsa (solco profondo)

pòsa (mettersi in posa)

mèssa (messa)

réssa (riccia)

carèssa (carezza)

póssà (riposare)

 

La "s" sonora, quando è all’inizio della parola o se viene dopo una consonante, può essere scritta come "z" ma si pronuncia come la "s" sonora.

Esempi: (giù), zùègn (giovani), örzöl (orzaiolo), anzaröl (avanzo).

Questa regola vale o Osio e in tutta la bassa bergamasca dove il suono “zeta” praticamente non esiste.

Nell’isola (paesi compresi fra il Brembo e l’Adda), al contrario la “s” sibilante viene pronunciata come “z” (zó, zùègn).

Per fare un altro esempio delle differenze di pronuncia, in ValSeriana, molto spesso, la “s” sibilante è sostituita dal suono dolce “g” (gió, giùègn).

 

4 – “c” e “g” dolci, “ch” e “gh” dure

 

Le consonanti “c” e “g”, quando sono seguite dalle vocali “a”, “o” e “u” hanno un suono duro, come nelle parole italiane: casa, corpo, cuore, galante, gondola e guscio.  

Quando invece sono seguite dalle vocali “e” e “i” hanno un suono dolce, come nelle parole italiane: cedro, cinque, accento, bocciatura, gelso, ginepro, reggente e loggia.

Quando sono seguite da una consonante, a maggior ragione la consonante “h”, hanno sempre un suono duro, come nelle parole italiane: chiesa, chiusa, perché, ghepardo e ghiotto .

Le stesse regole valgono per la lettura e la scrittura dei termini dialettali.

La lettera “g” in finale di parola (vedere il punto 6) ha sempre il suono duro e si pronuncia come la “ch

Qualche dubbio può sorgere invece quando è la lettera “c” ad essere posta al termine della parola, in quanto può avere suono dolce, e in questo caso si scrive raddoppiata, o suono duro, quando viene scritta come “c” singola.

 

“c” finale con suono dolce

“c” finale con suono duro

bröcc (brutti)

lacc (latte)

söcc (asciutt)

ècc (vecchio)

tècc (tetto)

mórcc (morti)

sac (sacco)

pac (pacco)

bosc (bosco)

balöc

matòc (mattacchione)

lac (lago)

 

Per togliere qualsiasi dubbio, molto spesso la “c” dura, in finale di parola, viene scritta come “ch”:  sach, pach, bosch, balöch, matòch e lach.

 

5 – Il suono “s-c”

 

Il gruppo “sc” tanto in italiano che in bergamasco, può avere tre tipi di suono:

 

·         Duro. Quando è seguito da “a”, “o”, “u” e da una qualsiasi consonante: scöla (scuola,) sculà (scolare), bosch (bosco)

·         Palatale. Quando è seguito da “i” e da “e”, come nell’italiano sci, sciagura, lasciare. In bergamasco è un suono molto raro: sciòr e sciùra (signore e signora). Molto più spesso si usa: siòr e siùra

·         Dolce. In Italiano il suono dolce è usato, all’inizio della parola, solo in caso di negazione, come ad esempio “centrato” e “scentrato”.

 

In dialetto  bergamasco questo suono è molto più frequente e per distinguerlo, la “s” e la “c” vengono separate con un trattino: s-cèt (ragazzo, schietto), s-cèta (ragazza), mas-c (maschio), mas-cì (maschietto), brös-cia (spazzola). 

 

6 – Finali di parola in “d”, “v” e “g”

 

Le consonanti “d”, “v” e “g”, in finale di parola, si trasformano in “t”, “f” e “c”, e così vengono sempre lette anche se scritte come “d”, “v” e “g”.

Alcuni esempi:

 

proéd – proét (fare la spesa, provvedere)

öd – öt (vuoto)

nüd – nüt (nudo)

möd – möt (modo)

niv – nif (neve)

biv – bif (bere)

növ – nöf (nove, ma anche nuovo)

viv – vif – if (vivo)

sang – sanc (sangue)

fang – fanc (fango)

spag – spac (spago)

long – lonc (lungo)

 

 

7 – I plurali

 

Alcuni plurali particolari:

 

Singolare

Plurale

Esempi

-a

-e

èrbe (erbe), érde (verdi)

-ca

-che

mosche (mosche), barche (barche)

-cia

-ce

face (facce),

-d -t

-cc

nücc (nudi), gialcc (gialli), dispècc (dispetti)

-ga

-ghe

braghe (pantaloni), maghe (maghe)

-gia

ge

ège (vecchie), bòge (pance)

-l

-i

animài (animali), fìi (fili), péi (peli), canài (canali)

-n

-gn

agn (anni), malagn (malanni)

-o

-i

bèli (belli), fèsi (idioti o disgustosi)

 

In tutti gli altri casi, i plurali sono uguali ai singolari.

 

 

Associazione Culturale “La Colombera” – gpb

 

 

 


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Piazza di Osio Sopra vista da Levante

 

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Piazza di Osio Sopra vista da Ponente

 



[1] “Terra di mezzo” e il suo nome deriva dalla posizione geografica centrale rispetto alla costa occidentale del Lario.

 

[2] Una delle voci più emozionanti della musica popolare lombarda, Giovanna Daffini è nata nel 1913 a Villa Savoi, frazione di Motteggiana, sulla riva del Po, in provincia di Mantova.

[3] Il suono å è tipico del dialetto bresciano. La sua pronuncia è un suono a metà fra la vocale a e la vocale o.

[4] Che ha appena tirato fuori il fiore.

[5] Come spesso nella parlata popolare non indica che i ragazzi si conoscessero già, indica semplicemente che per lei è la prima proposta d’amore ricevuta

[6] Una delle più sentite è quella del “prim dì ‘l’ann” il primo giorno dell’anno; i ragazzi de paese picchiano a tutte le porte in una sorta di questua pagana, recitando questa filastrocca:

 

Bun dì e bun ann
démm queicòss per el primm dì 'l'ann
el prim 'l'ann l'ha rutt el cóo
demel a mì ch'el giüstaróo

 

[7] Ad esempio in quella che ha per titolo “La fiöla de l’ustér”, con un andamento melodico e narrativo assolutamente paragonabile, alla fine il padre della ragazza riesce a trovarla e a riportarla a casa.

[8] Il frumento veniva battuto sulle aie durante l’estate e insaccato. Durante l’inverno, con l’aiuto di un crivello,soffiando, si procedeva a separare il grano dalla pula, l’involucro che riveste il chicco. La pula veniva data da mangiare a conigli e galline, il grano veniva portato al mulino per ottenerne in cambio la farina bianca per la panificazione.